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lunedì 31 ottobre 2011

Myloto Xyloto e la voglia di stadio dei Coldplay

MYLOTO XYLOTO
COLDPLAY
UK, 2011

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C’era una volta un ragazzo triste e vergine che cantava canzoni deprimenti vagando per spiagge desolate sotto la pioggia o legato a una sedia. Poi un bel giorno, incontrò, sposò e fecondò una star hollywoodiana bellissima e le sue canzoni diventarono più allegre e le sue T-shirt sempre più colorate.

Questa, in breve, la storia di Chris Martin, leader di una band che è diventata, un po’ inspiegabilmente, una delle più amate al mondo.
Le loro prime canzoni erano sì belle, ma chi si sarebbe atteso un successo del genere? Nessuno. E ora che l’hanno raggiunto, i ragazzi puntano sempre più in alto, tentando un approccio più commerciale con canzoni più orecchiabili e ottimiste.

Che l’altro ieri, a Madrid, si siano presentati dicendo “Ciao, siamo gli U2” è molto esplicativo: quella che sembrava una battuta era in realtà una dichiarazione d’intenti.
I Coldplay fanno dei cori da stadio la cifra stilistica del loro nuovo album, rendono le canzoni canticchiabilissime e assimilabili a ogni orecchio ma non facendogli molto onore.
Un anticipo c’era già stato nella meravigliosa Viva la Vida, poi è arrivata Paradise, ballatona pop perfetta per il mercato natalizio, poi c’è anche il prossimo singolo Princess of China e infine in Hurt Like Heaven, che però si avvale almeno di un simpatico assolo di chitarre e una buona base rockeggiante.

Già il fatto che l’unica collaborazione dell’album sia con Rihanna, la popstar più commerciale e tamarra del pianeta, faceva presagire quali fossero le intenzioni della band inglese.
Se perciò a qualcuno i due singoli sono sembrati troppo commerciali, si metta pure l’anima in pace e non ascolti il disco, perché sono quanto di meglio ci sia nell’album.

In ogni caso Chris & soci hanno tentato di accontentare un po’ tutti, fan esigenti che vorrebbero un cambiamento, fan meno esigenti che li vorrebbero sempre uguali e un nuovo pubblico che di certo arriverà grazie ai singoli radiofonici e a Rihanna.

Sul versante sperimentale abbiamo un paio di canzoni più vivaci e rockeggianti del solito come la già citata Hurt Like Heaven (troppo Police e The Cure) e Major Minus, dove però ci mettono un Uh Uh Uh un po’ troppo alla Sympathy for the devil e uno stile troppo alla U2 (quelli di Discotheque). Del resto i Coldplay hanno già patteggiato per due accuse di plagio, arrivate tra l’altro non per questi 4 pezzi!

I fedelissimi non rimarranno delusi grazie alla manciata di brani in perfetto Coldplay style, e cioè da sottofondo per tagliarsi le vene o nei miglior casi, per addormentarsi (Us against the world, U.F.O, Up with the birds ). Per finire c’è anche Don’t let it break your heart, che fa molto The Speed of Sound.

Un album che non deluderà i fan, piacerà al grande pubblico e un po’ meno a quello a più esigente.

VOTO: 6,5

sabato 29 ottobre 2011

La missione impossibile di Lars von Trier: il film apocalittico d'autore

MELANCHOLIA
di Lars Von Trier,
Danimarca, Svezia, Francia, Germania
                                                      PRESENTE IN 54 SALE ITALIANE

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Una serie di immagini sfocate al rallentatore in cui scorgiamo due donne e un bambino fanno da prologo a un primo atto incentrato su una bellissima coppia (Kirsten Dunst e Alexander Skarsgård, figlio di Stellan, anche lui nel cast) al proprio ricevimento di nozze. Il secondo atto invece ruota attorno alla sorella della neo-sposa di prima, ora alle prese con il passaggio di un pianeta chiamato Melancholia.


La prima parte potrebbe essere un preambolo alla seconda, , ma non lo è, perché non aggiunge assolutamente nulla né alla trama né alla descrizione dei personaggi e quindi appare del tutto superflua, se non addirittura dannosa: la presentazione dei genitori di Justine (Kirsten Dunst) e Claire (Charlotte Gainsbourg) non ci fa capire meglio le due protagoniste, anzi, rivela i limiti di uno sceneggiatore che descrive due genitori del tutto inverosimili in quanto troppo diversi dalle figlie. La madre (Charlotte Rampling) odia il matrimonio e il conformismo, e non ha nessuna parola gentile per la figlia; il padre (John Hurt), anziano, pensa solo alle donne e non ha alcuna intenzione di parlare con la figlia come da lei supplicato. Le figlie non hanno nulla a che spartire con questi personaggi: Justine è una ragazza romantica, gentile, attraversata da dure crisi che la rendono scostante e triste e che finiscono per rovinare il suo matrimonio; Claire è completamente dedita al marito (Kiefer Sutherland) e al figlio e si prende cura pure della sorella, che nella seconda parte è in preda a una grave crisi depressiva.
A parte qualche inserto comico (tra cui la limousine, il wedding planner di Udo Kier e il gioco dei fagioli sono quelli migliori) e bizzarro (la neosposa rifiuta di fare l’amore con il marito e la prima notte di nozze obbliga un ragazzo a una sveltina), il ruolo della prima parte serve solo ad allungare la pellicola di un’ora, e a mostrare una Kirsten Dunst sposa sbalorditiva per bellezza e bravura.


La seconda parte, che dura circa 80 minuti, è un film a sé ambientato interamente nella casa di Claire (a Tjolöholms, in Svezia), dove quattro personaggi attendono l’arrivo di questo pianeta che potrebbe distruggere la Terra.
Eppure, nonostante Wagner e una camera a mano sempre febbrile, la tensione non è mai palpabile.
Lars Von Trier ha voluto fare un film apocalittico d’autore: impresa ambiziosa e fallita, nonostante qualche bagliore di poesia e un paio di immagini degne di grande cinema: poche per una pellicola di due ore e mezza che non riesce a emozionare lo spettatore.
Ripensando alle passate eroine del regista, e soprattutto alla Bess de Le onde del destino e alla Selma di Dancer in the Dark, ma in parte anche la Grace di Dogville, Justine e Claire fanno davvero una magra figura: non emozionano, non coinvolgono, non convincono.
Sappiamo troppo poco di loro, non sono le strambe protagoniste dei suoi film precedenti che commuovevano lo spettatore per poi sconvolgerlo nella seconda parte quando, programmaticamente venivano violentate da una trama crudele.
Justine (nessun riferimento a Sade, peccato) è una ragazza incostante nella prima parte, che soffre poi di una misteriosa depressione che la rende apatica e antipatica nei confronti degli altri personaggi ma anche dello spettatore. Ed è un peccato che in questo secondo atto si limiti a girare nella casa come uno zombie, dopo aver dato vita, nella prima parte a un personaggio altamente drammatico, che dovrebbe essere all'apice della felicità e che invece fa di tutto per essere infelice perché logorato dentro da una grande insoddisfazione cronica che la porta a rovinare tutto.
Il personaggio di Claire, invece semplicemente non è pervenuto: si limita ad agitarsi e muoversi in questa immensa casa, il che è un po’ poco per renderla un’eroina indimenticabile, anche se l’interpretazione di Charlotte Gainsbourg è sublime, più di quella di Kirsten Dunst, premiata al Festival di Cannes come miglior attrice pur non essendo la vera protagonista del film e campeggiando ciononostante sulla locandina.

VOTO: 6,5


giovedì 27 ottobre 2011

Hanno ucciso l'uomo ragno

SPIDER MAN 3
di Sam Raimi
USA, 2007
con Tobey MacGuire, Kirsten Dunst, James Franco
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Peter Parker (Tobey MacGuire) è finalmente un ragazzo felice: va bene a scuola, ha una bella relazione con Mary Jane (Kirsten Dunst), peccato che quello che era un tempo il suo miglior amico, Harry (James Franco) ora gli abbia giurato vendetta.


Terzo episodio della saga di Spider Man diretta da Sam Raimi, quello più costoso (ai tempi il film più costoso della storia del cinema) e più debole nelle critiche, ma non negli incassi.

Nonostante la lunghezza si arriva al termine senza annoiarsi, pur mettendo alla prova la nostra pazienza con gli ostentati colpi di scena generati dalle apparizione dell’Uomo-Sabbia e da Harry. Tobey Maguire è credibile solo quando ha il volto coperto, Kirsten Dunst mette più passione di quanto ne venga richiesta per un ruolo in un film del genere. I personaggi interpretati dagli altri attori (Uomo sabbia, Harry e il fotografo), amabilmente delineati dal punto di vista psicologico nella parte iniziale, sul finale vengono risolti in modo sommario, in favore di scene d’azione che senza l’appiglio di maggior analisi perdono credibilità e fascino (quante ne succedono al miglior amico e quante volte egli volta gabbana?). Alla fine è un trionfo di consolidati valori: l’amore (è una travagliata storia d’amore), l’amicizia (è una travagliatissima amicizia) e la fede (è il suono delle campane, -il richiamo della fede?- ad allontanare il male da noi) e la patria (la bandiera, la fiducia nell’eroe nazionale). In tutto ciò sono inserite battute fuori luogo e scene che vogliono essere divertenti ma risultano ridicole (lui ubriaco, ad esempio).

Dopotutto quel che conta sono gli effetti speciali, sicuramente ottimi, ma arrivati al terzo episodio non rappresentano più una strabiliante novità, salvo l’efficace Uomo-Sabbia.

C’è anche un’appropriatissima colonna sonora. Insomma complessivamente è abbastanza decente per essere un blockbuster, ma i primi due episodi a quanto pare erano nettamente migliori.

martedì 25 ottobre 2011

Let's Talk about Dick!

DICK
Le ragazze della casa bianca
di Andrew Fleming
USA, 1999
con Kirsten Dunst e Michelle Williams

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Dick. Già soltanto per il titolo questo film dovrebbe diventare di culto. Ma non lo è mai diventato, e probabilmente non lo diventerà mai perché l’ho visto e amato solo io, ragione per cui voglio convincervi a vederlo.

Dick in realtà qui è il diminutivo di Richard, e come ben saprete, tutti coloro che si chiamano Richard, nei paesi anglofoni vengono chiamati in modo amichevole “Cazzo”. Anche dai loro genitori, nonni e perfino dal prete.

In questo caso però, Dick sta per  Richard Nixon, presidente d’America negli '60 e ’70 ritiratosi a causa dello scandalo del Watergate, fatto scoppiare da una spia di nome Gola Profonda, la cui identità è stata resa nota solo nel 2005. Prima di allora, in molti hanno tentano possibili risposte e  validi film hanno parlato di Nixon: Tutti gli uomini del presidente di Pakula (1976), Gli intrighi del potere di Oliver Stone con Hopkins (nel 1995), The Assassination con Sean Penn (2004) e infine Frost/Nixon nel 2008. Perfino Forrest Gump lo cita, e in fondo questo film lo ricorda per certi versi (anche qui dei personaggi “ingenui” che si trovano per caso in momenti cruciali della Storia).
Tutti film molto seri, al profumo di Oscar. Dick invece è la versione della storia in chiave comica e teen, rendendo accessibili il tema storico a un pubblico diverso da quello dei film appena citati.

Secondo il film di Andrew Fleming le spie erano in realtà due ragazze un po’ suonate e sfigatelle in gita alla Casa Bianca. Qui infatti, Betsy (Kirsten Dunst) e Arlene (Michelle Williams) finiscono per sbaglio in una stanza off-limits dove scoprono che dei funzionari stanno tranciando quantità industriali di documenti, misteriosamente collegati a un “affare” al Watergate, che è proprio il quartiere in cui abita una delle ragazze.
Ingenue, le ragazze fanno domande e per comprare il loro silenzio, vengono insignite dal Presidente in persona (Dan Hedaya), del titolo di dogsitter del cane presidenziale. Lo staff presidenziale capisce infatti che le ragazze non sono particolarmente sveglie e si può raccontare loro qualsiasi balla, ma allo stesso tempo, essendo così ingenue, chi può garantire che tengano la bocca chiusa?Bisogna puntare sui loro buoni sentimenti e dunque il Presidente si finge loro amico.La povera Arlene finisce per innamorarsi di Nixon, e chiamarlo Dick nei propri diari.
Con la testa tra le nuvole, cade mentre pattina pensando a lui non prima di aver urlato in pubblico “I want Dick” (SCENA CULT 1).

Il fratello di Betsy è un perfetto figlio dei fiori, che riempe la torta di mammà con foglie di marja e guarda un porno chiamato Gola Profonda. La torta finisce alla Casa Bianca, e viene offerta a Breznev, che, preso dall’euforia della canna, firma un trattato sulla limitazione delle armi strategiche.Non solo, ma Betsy, chiede al Presidente di cessare la guerra in Vietnam perché non vuole che suo fratello parta. Il giorno dopo viene annunciato il ritiro delle truppe..
Le due però non sono così idiote come sembrano, o meglio sì, lo sono, però sono anche delle ficcanaso e finiscono in casa di un pezzo grosso..

SEQUENZA CULT:
Per entrare, Besty seduce il ragazzo che sta lavando l’auto davanti al garage (Ryan Reynolds prima di sposare e poi divorziare da Scarlett Johansson) chiedendogli se gli va di pomiciare. Arrivati in camera, Kirsten lo strofina con i capelli, per poi andarsene all’improvviso quando scopre l’identità del ragazzo. Uscendo,si scontra con il proprietario della casa e per non farsi riconoscere si copre il visto con i capelli muovendo la testa da una parte all’altra.

Nel frattempo Arlene canta “I Honestly You” e lo registra su un mangianastro. Quando però riascolta la propria voce, sente anche ciò che è stato registrato prima, e cioè delle parolacce rivolte al cane! Ci sono anche conversazioni telefoniche scottanti, ma di queste non se ne cura la ragazza, che, pentitasi di aver registrato una canzone d’amore per un uomo che offende gli animali, prende la cassetta con sé.

Arrivate a casa di Arlene, scoprono che sua mamma (interpretata da Teri Garr, la mitica Inga di Frankestein Junior) ha trovato all’improvviso un fidanzato mozzafiato: deve essere una spia. Le ragazze capiscono così di essere solo due stupide ragazzine trovatesi in mezzo a qualcosa di molto più grande di loro e dopo aver assistito agli arresti di funzionari che avevano conosciuto alla Casa Bianca, decidono di fornire il loro nastro con queste intercettazioni anti-litteram a due giornalisti più idioti di loro (il celebre Woodward è interpretato da Will Ferrell). e come nome di copertura usano Gola Profonda.

(SCENA CULT 3)

Le due salutano il passaggio dell’elicottero presidenziale sventolando la scritta "You suck, Dick" e vestendosi con una bandiera americana.

Arlene: Ma non è reato fare a pezzi la bandiera?

Betsy: No se poi la indossiamo!

In ogni cult che si rispetti, anche i titoli di coda devono essere di culto: ecco dunque la stanza ovale della Casa bianca illuminata dalle luci stroboscopiche e le nostre eroine che la percorrono pattinando e leccando un lecca-lecca sulle note di Dancing Queen degli Abba.

Il regista Andrew Fleming non ha avuto molta fortuna (il suo più grande successo, si fa poi per dire, è Amici per gioco, amici per sesso, una sorta di Amici di letto con annesso triangolo), ma le due attrici sono letteralmente sbocciate come fiori.

La commedia, spesso virata al demenziale, è davvero divertente e con buoni dialoghi che vantano una manciata di ottime battute. La colonna sonora è un misto di successi dell’epoca (You’re so vain, Crocodile Rock, Dancing Queen..). Le scenografie e i costumi anni '70 sono adorabilmente Kitsch e le due protagoniste interpretano la parte delle ragazze suonate alle perfezione!
Insomma, spero di avervi convinto. Questo è un film da recuperare, diffondere e cultizzare!

Concludo con un dialogo tra le due:

Besty: Tu sei la mia migliore amica!

Arlene: Ma io sono la tua unica amica!








lunedì 24 ottobre 2011

Kirsten Dunst's filmography: Part II

2000: Bring it on (Ragazze nel pallone), commedia accolta piuttosto bene dalla critica, The Crow 3 - Salvation, accolto invece molto male, è il terzo sfortunato capitolo della saga de Il Corvo.
2001: il dimenticabile Crazy/Beautiful, storia di una ragazza interrotta, ricca e viziata, che si riscatta grazie all'amore per un ragazzo portoricano povero (Jay Hernandez)


2002: la svolta che la trasformerà in star. La trilogia di Spider Man firmata Raimi, con 2 miliardi e mezzo di incasso complessivi, conclusasi nel 2007.

2003: un ruolo in Mona Lisa Smile, deludentissima versione al femminile de L’attimo fuggente, con Julia Roberts come protagonista.


2004. Un ruolo, ancora una volta non da protagonista, grazie al quale rimarrà però nella storia: quello in Eternal Sunshine of the Spotless Mind, regia di Michel Gondry, con Jim Carrey al meglio e Kate Winslet al suo solito (cioè bravissima), il film è cresciuto anno dopo anno fino ad affermarsi come uno dei film più amati degli ultimi anni.

2005: Elizabethtown, commedia gracile e graziosa con Orlando Bloom, che non ha ottenuto gli effetti desiderati né in termini di critica né di box office.

2006. Altro punto cruciale della sua carriera, ovvero Marie Antoinette, di Sofia Coppola, di cui è protagonista assoluta.

2008. Bisogna aspettare ben 2 anni per rivederla sul grande schermo, ed è soltanto per il ruolo minore in un film minore: la commedia How to Lose Friends & Alienate People (Se non ci sei non esisti), passata inosservata.

Poi arriva la notizia di un ricovero in clinica per disintossicarsi, prontamente smentita dalla stessa Dunst che dichiara di soffrire da tempo di una forte depressione che l’ha portata a ricorrere al ricovero in clinica.

Finalmente ripresasi, Kirsten decide di recitare per il più deprimente e devastante regista al mondo: Lars Von Trier, che la rende protagonista di Melancholia, uno dei suoi film più deprimenti, e la convince perfino a spogliarsi nuda alle soglie dei 30 anni. La performance le vale però la Palma d’oro al Festival di Cannes e segna la rinascita, anche artistica, dell’attrice.

2012. Non la vedremo di certo in All Good Things (ma forse non è così grave, vero Cannibal Kid?) con Ryan Gosling, uscito in sordina perfino negli USA, ma la vedremo senz’altro, in un piccolo ruolo, nell’adattamento di On the road di Walter Salles (I diari della motocicletta), nella fanta-love comedy Upside down e molto probabilmente la ritroveremo per la terza e quindi attesissima collaborazione con Sofia Coppola.

domenica 23 ottobre 2011

Kirsten Dunst's filmography: Part I

L’uscita di Melancholia, nuova opera di Lars Von Trier, è l’occasione per ripercorrere la carriera di Kirsten Dunst, una delle attrici più versatili di Hollywood che grazie a Sofia Coppola prima e Von Trier ora, ha dimostrato un grande talento d’attrice in film d'autore. Sul set fin da bambina, nominata al Golden Globe a soli 12 anni, Kirsten ha brillato sia come commediante, sia come attrice drammatica.
Ripercorriamo le tappe della sua lunga carriera.



Kirsten Dunst è nata il 30 aprile in New Jersey, a 3 anni i suoi la trasformano in una modella per spot televisivi, mentre il suo debutto è tenuto a battesimo da nientemeno che sua Maestà Woody Allen in un episodio di New York Stories: Kirsten ha 6 anni e un debutto del genere non può che essere di buon auspico..(è la bambina a destra).

1994. A 12 anni avviene una svolta nella sua carriera grazie a tre film molto diversi tra loro: è riconoscibile a fianco di due miti come Michael J. Fox e Kirk Douglas nella commedia di successo Greedy (Caro Zio Joe), che da piccolo guardai e riguardai un sacco di volte, ma soprattutto ha il primo ruolo importante in Interview with the Vampire (Intervista col vampiro) dove interpreta la figlia surrogata e vampira Tom Cruise e Brad Pitt. Il film, che include scene molto disturbanti per una bambina così piccola, le frutta la prima ed incredibilmente ultima nomination al Golden Globe come attrice non protagonista.

Nello stesso anno è in una delle più riuscite trasposizioni di Piccole Donne, mentre nel ’95 affianca Robin Williams nel blockbuster per famiglie Jumanji.

1996: è un personaggio ricorrente della terza stagione di ER, lo sapevate/ve la ricordavate?
Kirsten interpretava una baby prostituta di cui si prende cura l’allora meno conosciuto George Clooney.



1997: appare al fianco di Dustin Hoffman in Wag the Dog (Sesso e potere), nel
1998 in Small Soldiers di Joe Dante, curioso film anti-militarista che mette in scena una guerra tra giocattoli.



1999: rifiuta il ruolo di Angela in American Beauty, passato poi a Mena Suvari che è diventata così uno dei simboli del cinema degli ultimi 20 anni. Kirsten, allora sedicenne non se la sentiva di spogliarsi nuda.
Oggi possiamo darle ragione: Mena Suvari non è più nessuno, Kirsten invece si è spogliata per Lars Von Trier.

Al posto di American Beauty gira Dick (in italiano Le ragazze della Casa bianca), commedia satirica oggi completamente dimenticata e ignorata da critica e pubblico che deve essere però recuperato al più presto, anche perché è al fianco di un’altra mia favourite, ovvero Michelle Williams.
Del ’99 è anche un ruolo ultra drammatica nel televisivo Devil’s Arithmetic, accanto alla compianta Brittany Murphy.


Ma il 1999 è soprattutto l’anno dell’incontro con Sofia Coppola al suo esordio col film evento The Virgin Suicides (Il giardino delle vergini suicide), delle cui suggestioni vi ho già parlato.

 
 
 
 to be continued...

giovedì 20 ottobre 2011

This must be the (right) place (and time)

THIS MUST BE THE PLACE
di Paolo Sorrentino,
Italia, Irlanda, Francia, 2011
con Sean Penn, Frances McDormand
Ora nei cinema italiani
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Un uomo in crisi di mezz’età, di fronte a un grave lutto, è obbligato a confrontarsi con la sua vita e a intraprendere un viaggio che è anche spirituale.


La trama è tra le meno originali mai sentite e la sceneggiatura (firmata con Umberto Contarello) ha un sapore molto improvvisato, per non dire sconclusionato, ma il film di Sorrentino si basa su paesaggi, musiche, personaggi e situazioni.



Con il personaggio di Sean Penn, il regista napoletano supera se stesso in quanto a grottesco, e per di più lo fa interagire con una marea di freaks che nulla servono alla storia, ma fanno scena.



E così abbiamo il tipo tatuato che chissà perché si confida con lui, l’anziana maestra che vive con un’oca in una casa delle bambole di sapore Kitsch orrorifico, l’inventore della valigia a rotelle che gli racconta la sua vita, l’uomo di affari che non si fida di lasciare l’auto alla moglie ma la dà a uno sconosciuto..



Tutti personaggi assurdi, grotteschi più nei modi che nel look, che strappano qualche sorriso e molte perplessità.

Ma è nel protagonista che l’autore concentra tutta la sua sete di apparire e di colpire.



Un personaggio costruito con il semplice pretesto di rimanere nell’immaginario collettivo e di essere elevato a icona, come i Coen hanno insegnato col loro Dude /Drugo (e sull’influenza dei Coen in Sorrentino si potrebbe dire molto (c’è perfino Frances MacDormand!).



Ogni battuta, sguardo e gesto di Cheyenne è perfetto per diventare cult, talmente perfetto e “iconico” da risultare quasi fastidiosamente studiato a tavolino per poter comporre un album di immagini culto:

Cheyenne che sbuffa soffiando verso il lungo ciuffo, Cheyenne che beve la sua bevanda analcolica, Cheyenne che trascina il suo inseparabile zaino a rotelle, Cheyenne che ripete alcune battute più volte: tutto è già mito nel momento stesso che viene mostrato. Lo stesso fatto di vedere Penn così conciato è di per sé mitico.



E a Sorrentino va riconosciuto di esserci davvero riuscito a creare un personaggio memorabile, destinato a rimanere nella memoria e nella carriera, già ricchissima, di Sean Penn: la rockstar depressa e suonata, ma dal cuore d’oro è uno dei personaggi più belli visti di recente sullo schermo, benché estremamente banale.



Anche le battute da lui pronunciate hanno tutte le carte in regola per rimanere, mentre registrano un passo indietro, rispetto alla precedente filmografia dell’autore napoletano, l’aspetto visivo e quello musicale, comunque notevoli.



La fotografia di Luca Bigazzi è sempre un bel vedere, ma osa meno del solito; lo stesso vale per la musica: si sono scomodati David Byrne, Nino Bruno, Will Oldham, ma il vero brano portante è uno non originale, la magnifica e struggente Spiegel im Spiegel di Arvo Pärt, che, per strana coincidenza era anche il tema dell’ultima famigerata prova cinematografica della prima moglie di Sean Penn.



Ciò che fa storcere il naso è però l’aver scomodato nientemeno che la Shoah.
Se tale scelta azzardata può sembrare all’inizio una mossa fastidiosamente furbetta per accattivarsi la cospicua componente ebraica di Hollywood, ben presto le ragioni del gesto sfuggono del tutto perché al contrario, Sorrentino tratta in modo offensivo e a dir poco banalizzante un tema così delicato e inflazionato alternando ai corpi senza vita dei bambini uccisi nei lager l’immagine grottesca di Sean Penn che chiacchiera spensieratamente, e all’immagine del vecchio nazista buono punito, una delle sue battute cult di Cheyenne “Qualcosa mi ha disturbato, non so bene cosa, ma qualcosa mi ha disturbato...”.



Il debutto americano di Paolo Sorrentino è insomma riuscito a metà: i fan possono tirare un sospiro di sollievo perché l’autorialità del regista non è venuta meno, ma anzi, si è adattata con classe a un topos tipicamente americano come il road-movie. Peccato che vi manchi dietro un’idea forte, quasi che l’importante fosse semplicemente arrivare ed apparire. Sorrentino ce l’ha fatta. E’ arrivato e il suo film si farà ammirare in tutto il mondo, ma se il pubblico americano accetterà i suoi ostentati ammiccamenti è tutto da vedere. In Francia, per il momento, è stato un enorme fiasco.



Riassumendo, il film è come la scena del concerto di David Byrne: sorprendente, avvolgente, un po’ troppo lungo e francamente fine a se stesso. In ogni caso, il miglior film di un regista italiano di questo 2011.

VOTO: 7,5

mercoledì 19 ottobre 2011

E anche Pedro ha fatto splash

LA PIEL QUE HABITO
di Pedro Almodovar,
Spagna, 2011
con Elena Anaya e Antonio Banderas
ancora al cinema
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Una donna bellissima, avvolta in una tuta color carne aderentissima firmata Jean Paul Gautier, svolge alcuni esercizi ginnici nella sua stanza-prigione in cui è osservata giorno e notte da telecamere. Poco più tardi, il suo corpo nudo, su uno schermo che occupa un’ intera parete, è osservato dal suo creatore.

L’incipit sembra alludere a un altro capolavoro ad aggiungere alla lista di Almodovar: il rapporto voyeuristico dello scienziato e della propria creatura e i tentativi disperata di quest’ultima di attirare la sua attenzione suscitano subito la curiosità dello spettatore: com’è finita lì questa (melo)drammatica eroina, riuscirà a liberarsi?
Attraverso numerosi sbalzi temporali la storia ci racconta questo e molto altro, non rispettando del tutto le premesse da giallo suggerite all’inizio e perdendo man mano fascino e solidità, arrancando verso un finale scontato e un epilogo esilarante, senza la consueta abilità del regista nel muoversi sul sottilissimo filo che separa il grottesco dal cattivo gusto, il sopra le righe dall’involontariamente comico.

È come se Almodovar rimanesse fedele al proprio marchio di fabbrica rimanendone imprigionato lui stesso e il film che ne esce è un tutt’altro che riuscito ennesimo studio del rapporto tra vittime e carnefici, già proposto, in modo del tutto diverso, anche da Polanski.

Anche qui sono tutti vittime e tutti carnefici: la fedele domestica (Marisa Peredes) è una madre amorevole ma allo stesso tempo infanticida, suo figlio, che di nome fa Sega ma si fa chiamere Tigro, è allo stesso modo una vittima della povertà e della malavita ma anche uno spietato criminale. (Completamente gratuita se non addirittura noiosa la sua storia raccontata come un colpo di scena).

Lo stesso discorso vale per i due protagonisti, due figure che incarnano allo stesso tempo sia il carnefice che la vittima. Può esistere l’amore tra i due?

"Qualcosa si è spezzato nel cinema di Almodovar: la sua regia rimane impeccabile, ma la sceneggiatura questa volta non funziona. Il risultato è un coloratissimo mosaico piuttosto insapore".

     Persogiàdisuo, Gli abbracci spezzati di Almodovar, in “Perso nel mondo del cinema”,   giovedì 3 dicembre 2009.

Già. Ho citato me stesso. Il discorso formulato per Gli abbracci spezzati, penultimo film del regista castigliano, vale anche per questo, con la differenza che La piel que habito è nettamente inferiore.

E ciò che è più fastidioso è che Almodovar alterna trovate geniali e inquadrature magistrali a momenti davvero evitabili che talvolta cadono nel patetico, nell'irritante e nel ridicolo (l’uomo tigre, il tentato stupro).

Dov’è la grazia con cui Almodovar mescolava tanti registri?

La forma si è sublimata, ma la sostanza ahimé è evaporata. I suoi ultimi film hanno una confezione perfetta, lontanissima dagli sgangherati esordi che però traboccavano di vitalità sincera (basta pensare all'ultima collaborazione con Banderas in Legami!)

Perfino nella direzione degli attori questa volta è carente: a parte la protagonista, Elena Anaya, davvero magnifica per aspetto e recitazione, gli altri appaiono  scialbi, Banderas in testa. E la colpa non è sua. Dov’è il dolore e la vendetta che il suo personaggio dovrebbe comunicare? La sua può essere una recitazione per sottrazione, certo, ma allo spettatore questo grande dolore non arriva. In fondo tutto ci viene detto dagli altri, mai dal personaggio stesso, che per tutto il film non comunica nulla, vittima della finzione ma anche della penna di Almodovar incapace di infondergli un po’ di vita, come se tutte le sue preoccupazioni fossero per la creatura in gabbia, lei sì a volte palpitante e vera. Ma solo a tratti, perché pure nel personaggio della donna prigioniera, Almodovar, sempre così attento alle questioni di genere e ai sentimenti, banalizza in modo sconcertante l’identità di genere e i rapporti sentimentali.
Come se si fosse lasciato prendere un po' troppo dalle belle inquadrature e dalle belle musiche, considerando la drammaturgia come mero accessorio (come ha fatto Sorrentino in This must be the place, recensione di domani): il fatto paradossale è che alla partenza c'è un romanzo noir scritto benissimo.
L’unica nota positiva del film alla fine è quella di aver scoperto, in tutti i sensi, Elena Anaya. Chissà se sarà la nuova Penelope Cruz. Di certo c'è bisogno di un nuovo Almodovar o di uno vecchio, ma mai più un altro così.

VOTO: 6