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lunedì 16 marzo 2009

RECENSIONE di The Curious Case of Benjamin Button

Una vita straordinaria per un amore altrettanto incredibile. Un amore tanto esasperato da apparire subito pretestuoso quando ci troviamo di fronte ad una bambina che si intenerisce per un ultraottantenne. Un amore che si manifesta pienamente solo dopo due ore per poi risolversi in poche, anche se bellissime scene. E al termine delle tre ore quello che rimane è una grandissima storia d’amore, che non conosce confini di età. Così Daisy continua a prendersi cura di Benjamin anche quando ormai non lo fa più nessuno e lui non la può riconoscere perché è un neonato, allo stesso modo in cui il Michael di The Reader si prenderà cura di Hannah quando lei sarà in prigione. Due storie d’un amore che supera ogni confine accomunano Il curioso caso di Benjamin Button e The Reader, ma cambiano i punti di vista: quello americano (grande kolossal, Pearl Harbor, uragano Katrina) e quello europeo (stile minimalista, Seconda guerra mondiale, senso di colpa, sesso e letteratura).
La sceneggiatura dell’ Eric Roth di Forrest Gump, qui aiutato da Robin Swicord ha poco della tenerezza, dell’originalità e del brio presenti nel film di Zemeckis, col quale ha però molti punti in comune: storia di un “diverso” e del suo amore tormentato per una ragazza sullo sfondo di una fetta di Storia degli Stati Uniti.
Peccato che in tre ore di pellicola non ci sia nemmeno un dialogo memorabile. Ed ecco un altro problema: la durata. Tantissime le parti, anche ben eseguite, ma del tutto inutili. Un esempio fra tutti, la lunga parentesi concessa al legame con il personaggio della bravissima Tilda Swinton.
Dopo aver sollevato l’ammirazione di pubblico e critica ed aver perso un po’ di smalto con Zodiac, Fincher è voluto tornare per creare un classico, un progetto ambiziosissimo con una coppia di attori celeberrimi pronti a imporsi come nuova mitica coppia del grande schermo e una trama che colpisse e commuovesse ad ogni costo. L’intento è dunque quello di andare incontro ad un pubblico vastissimo e perciò ingenuo, che però non ha di certo l’intenzione di sorbirsi un film drammatico di tre ore. Sono solo due i casi in cui questo è avvenuto: Via Col Vento e Titanic. Eppure sono due anche i tentativi stagionali di emulazione dell’irripetibile appeal di queste due pellicole: oltre a Fincher anche il bravissimo Luhrmann ci ha provato poco fa con la coppia Kidman-Jackman nel suo film fiume Australia. Film che vogliono essere capolavori, ma restare anche nel cuore del pubblico. In entrambi i casi il tentativo è fallito.
Tuttavia il film esegue alla perfezione ciò che ci si aspetta da ogni favola hollywoodiana, ovvero far sognare. Come favola e senza troppe pretese va perciò letta quest’incredibile storia di un uomo nato vecchio e morto bambino tra le braccia della donna che ha sempre amato.
La magia che rende speciale il cinema qui è presente nelle scenografie accurate, nella sublime fotografia, negli eccezionali effetti speciali e in quello straordinario trucco che si prende beffa dello spettatore ringiovanendo ed invecchiando i due divi. E in Cate Blanchett, che salvo le scene (superflue?) sul letto di morte, irradia di luce propria ogni scena in cui compare. Miracolo del cinema. Di luce propria brilla anche l’intensa Taraji P. Henson, mentre di Brad Pitt si può dire che è stato generoso a concedere il proprio celebre volto ad uno staff di eccellenti truccatori e maghi di effetti speciali.
Resta un film ambiziosissimo, confezionato in modo impeccabile, ma appesantito da un ritmo lento e una sceneggiatura zoppicante.

VOTO: 6/7

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