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mercoledì 12 dicembre 2012

Problemi con la curva?

DI NUOVO IN GIOCO
(TROUBLE WITH THE CURVE)
di Robert Lorenz,
USA, 2012
con Amy Adams, Clint Eastwood, Justin Timberlake, John Goodman
Genere: sportivo

Se ti piace guarda anche: Moneyball, Invictus, Gran Torino
TRAMA

Un anziano scout di baseball comincia a perdere colpi, tuttavia continua imperterrito il suo lavoro.
La figlia, con la quale non è in buoni rapporti, viene convinta da un amico del padre a stare attenta: la ragazza così decide di seguire il padre in North Carolina dove tenterà di ricucire il rapporto con lui.
RECENSIONE
Questo è l’anno delle promesse infrante: prima Woody Allen, poi Clint Eastwood: entrambi avevano annunciato che non avrebbero più recitato e invece..
Eastwood ritorna a recitare a 4 anni da Gran Torino per l’esordio alla regia di Robert Lorenz, suo storico produttore e assistente regista. E di Gran Torino l’ottantaduenne sembra riprendere lo scontroso personaggio e riproporne una copia sbiadita.
Non potevo non mettere la locandina parodica appena pubblicata da un sito americano perché questo è un film che si presta moltissimo ad essere deriso, anche se il duo di protagonisti riescono a farsi perdonare la banalità della trama e l'ordinarietà della regia.
Come film sul baseball visto dal punto di vista degli scout, era di certo meglio Moneyball, tra l’altro uscito non molto tempo fa. E il sub plot del rapporto tra padre e figlia è quando di più prevedibile, buonista e banale possa esserci, anche se Amy Adams riesce sempre a salvare qualsiasi personaggio. Peccato che questa volta se se la debba vedere anche con la più scontata delle love story al fianco di un non attore come Justin Timberlake (che comunque se la cava sempre). A salvare il film gli ultimi 15 minuti, grazie sempre al personaggio della Adams: comunque un po' poco in un film di quasi due ore. 
Quindi se da una parte fa piacere rivedere il vecchio Clint davanti alla macchina da presa resta comunque sconfortante vederlo in tale soporifero mix di banalità hollywoodiane assortite, ma che ci tocca fare? Potrebbe comunque restare la sua ultima prova d'attore, quindi tanto vale metabolizzarla.

Per una volta la traduzione italiana è migliore della versione originale.
VOTO: 6

mercoledì 11 gennaio 2012

J. Edgar: l'Eastwood più ambizioso?

 J. EDGAR
di Clint Eastwood
Usa, 2011
Biopic
con
Leonardo DiCaprio, Naomi Watts, Armie Hammer, Judi Dench


ora nelle sale
Se ti piace guarda anche: Changeling, Il curioso caso di Benjamin Button, The Aviator,

Nemico pubblico


J.Edgar Hoover (Leonardo DiCaprio, titanico come sempre) diventa, giovanissimo, presidente del FBI, e manterrà il proprio ruolo per 48 anni, sopravvivendo a 8 importanti presidenti d’America e lavorando sempre al fianco dei fedeli Clyde Tolson (Armie Hammer da Oscar)e Miss Gandy (Naomi Watts, da applausi anche se si meritava scene migliori).

Ambiziosissimo film di Clint Eastwood, scritto dal Premio Oscar Dustin Lance  Black (Milk), che tenta di costruire un ritratto pubblico e privato di una delle figure più controverse della storia americana, ovvero il fondatore del moderno FBI, colui che introdusse i moderni sistemi di investigazione, impronte digitali comprese.
Un doppio ritratto che non omette richiami al presente, tanto che le parole di Hoover in più punti richiamano affermazioni di ben più recenti personaggi politici, soprattutto Bush jr e la sua lotta al terrorismo.


C’è decisamente troppo materiale su cui lavorare, troppa storia americana in ballo e una vita privata sconosciuta sulla quale non si può sorvolare. Eastwood vuole però provare a raccontare tutto perché si serve di Hoover per darci un’importante lezione: all we need is love. Nessun successo, ricchezza o fama potrà mai sostuire l’amore. Il punto di vista del regista e dello sceneggiatore sono dunque chiari: c’è sempre l’amore alla base dei nostri gesti, o la sua mancanza, perdita, negazione. Hoover cercava in pubblico una sicurezza e un successo che nel privato non poteva conoscere perché ha sempre rinnegato se stesso. Ecco dunque il secondo tema che vuole suggerire: l’accettazione di sé, o meglio il riconoscimento di sé.

Ed è proprio la parte del film dedicata alla sfera privata del protagonista che coinvolge e lascia il segno e non quella eroica al lavoro: le sue imprese al Bureau, tutte le catture e i successi si susseguono velocemente e confusamente sullo schermo senza impressionare più di tanto lo spettatore. Nessun inseguimento o sparatorie come si potrebbe attendere dall’ex ispettore Callagan nonché regista de Gli spietati, insomma. Mentre al contrario lascia il segno la timida ma risoluta Naomi Watts- Miss Gandy che lo rifiuta, la crudele e possessiva madre di Judi Dench che lo ama solo alle sue condizioni e soprattutto il Tolson di Armie Hammer che lo ama incondizionatamente per 45 lunghi anni: la scena del bacio con sfuriata e poi quelle senili con i due uomini che fanno colazione o che guardano alla Tv Marthin Luther King che accetta il Nobel dipingono una delle love story più commoventi viste al cinema negli ultimi anni. Una storia d’amore struggente e crudele, che riscatta il film e gli fa perdonare le eccessive lungaggini, i make up grotteschi di serie B e scelte narrative e registiche discutibili.

VOTO: 7,5 
Nonché, nella versione italiana, un doppiaggio da denuncia.

venerdì 11 febbraio 2011

Clint vs Allen: è un cinema per vecchi


 


Sono, oltre che due dei miei registi preferiti, i due cineasti statunitensi più prolifici e anche quelli più anziani e rappresentano le due facce dell’America (del mondo?). Uno è l’incarnazione dell’epopea americana (e quella capitalistica), il duro alla conquista del West. L’altro è la faccia dell’East Coast, della classe intellettuale piena di paranoie e insicurezze.

Entrambi hanno deluso molti seguaci con le loro ultime due opere, ma chi sta reggendo meglio il peso del tempo che passa?

Indubbiamente Eastwood, che ha firmato tre dei suoi quattro migliori titoli negli anni 2000 (Million Dollar Baby, Mystic River e Gran Torino). Woody Allen si è dovuto accontentare di un unico ottimo titolo, Match Point, che però secondo alcuni è già un film poco riuscito. Senza contare che Clint ha superato la boa degli 80, mentre Allen ha alle spalle "solo" 75 primavere.

Allen in sua difesa ha molti più film e molti più generi (dalla commedia demenziale al dramma più cupo, dal giallo al musical..), ma confronto tra i due è possibile solo riferendosi all’ultimo decennio, visto che Eastwood si è messo a dirigere con regolarità solo dagli anni ‘2000, mentre Allen lo fa da 45 anni.

Per la precisione 46 film in 45 anni per Allen, 34 in 40 anni per Eastwood. Da registi.
41 film d’attore per il primo e 65 per il secondo.
Entrambi spesso compositori per i propri film (anche se Clint decisamente più spesso), Clint è sempre stato anche produttore delle proprie opere registiche, Allen mai. In cambio il vecchio Woody ha scritto tutti i suoi film e un’altra ventina di titoli.

E qui sta il nocciolo della questione. Il lavoro di Allen è doppio, perché a ritmo instancabile, ha scritto e diretto un film dopo l’altro negli ultimi 45 anni. Eastwood invece si è sempre limitato a dirigere. Spesso anche per commissione in qualche modo (Hereafter su invito di Spielberg, Invictus per insistenza di Freeman).

Non c’è dubbio dunque su quale tra i due sia il vero autore, nel senso odierno del termine, coniato negli anni ’50 dalla politique des auteurs dei Cahiers du cinéma. Ma se pensiamo ai grandi del cinema hollywoodiano, quasi mai sceneggiatore e regista hanno coinciso. Dunque in un’accezione più hollywoodiana e classica del termine, Eastwood può essere considerato un autore. Ovvero un regista che dona un’impronta personale nelle storie che racconta (e che dirige sempre dannatamente bene).

Nei loro ultimi due film, Eastwood e Allen si sono svenduti in nome del dio commercio: il primo l’ha fatto comunque con classe, il secondo con un film che di dignitoso ha davvero poco.

Per fortuna entrambi hanno dei progetti futuri che fanno ben sperare: nella stagione 2011/2012 Allen tornerà con una commedia romantica di ambientazione parigina dal cast invitante (a dire il vero lo era anche quello dell’ultimo), mentre Eastwood si confronterà con l’ambizioso progetto di una biofiction su Edgar J. Hoover con l’ormai onnipresente e onnipotente Di(o) Caprio.

Clint alle prese con l'aldilà

HEREAFTER
di Clint Eastwood,
USA, 2010

Una celebre giornalista francese (Cécile de France) scampa per miracolo a uno tsunami, rimanendo per qualche istante tra la vita e la morte. In quel breve momento scorge l’aldilà e decide di raccontare al mondo la sua esperienza. Un bambino perde il proprio fratello gemello in un incidente stradale e i servizi sociali lo allontanano dalla madre per affidarlo a una nuova famiglia. Entrambi incontreranno alla fiera del libro di Londra un medium (Matt Damon) che riesce a parlare con i morti…

Clint Eastwood alle prese con un soggetto senz’altro singolare riesce a superare con grazia il pericolo di cadere in un pasticcio soprannaturale, ma dà al cinema il suo film più commerciale e hollywoodiano.

Molti critici l’hanno definito il film più europeo del grande maestro, ma a parte le lunghe scene recitate in francese e un omaggio a Charles Dickens di europeo resta ben poco. È piuttosto una grande produzione hollywoodiana in cui si fa uno spudorato uso di product placament (Blackbe**y, Yout**e, Goo**e) e in cui si cerca a ogni costo la commozione dello spettatore. Lo zampino di Spielberg produttore si vede negli effetti speciali dell’incipit catastrofico, mentre di Eastwood cosa si può dire?
Si vede la sua regia d'impianto classico, la sua sicurezza, eppure...
Il vecchio Clint insegue troppo l’inflazione sentimentale, ammassando disgrazie su disgrazie che hanno lo scopo di commuovere lo spettatore. Certo, è un film sulla morte e in quanto tale non può che essere lacrimevole. Eppure è fin troppo facile commuovere sfruttando il personaggio di un bambino contro cui il destino sembra essersi accanito a dismisura. E che dire del gratuito happy ending in cui i due protagonisti si innamorano solo grazie a uno sguardo? Sono aspetti davvero fastidiosi e melensi che lo spettatore non si aspetterebbe da un personaggio che ci ha sempre abituati a film di e per “duri”. Ma anche un regista di piccoli film scomodi.

Dopo Invictus, enfatico e patinato monumento a Nelson Mandela, opinabile ma amatissimo dal sottoscritto, di fronte a Hereafter pure io storco il naso.
Qui tutto è accomodante, scontato. C’è poi una lunga, inutilissima e incomprensibile sequenza con Bryce Dallas Howard che lascia davvero interdetti. E vogliamo parlare del modo in cui Damon entra in contatto con i morti?
Naturalmente Eastwood è sempre Eastwood, anche se lezioso e indolcito, ed è sempre bravo a dirigere gli attori, a scegliere (e comporre) le musiche e il direttore della fotografia (il fido Tom Stern), ma il risultato finale è un film che vorremmo subito accantonare per passare al successivo, che come al solito, non si farà attendere molto e sembra decisamente più interessante.

VOTO : 7

mercoledì 24 marzo 2010

L'invincibile vecchio Clint

INVICTUS
Nelson Mandela diventa il primo presidente nero del Sudafrica e fin dall’inizio sembra far di tutto per perdonare all’opposizione quei 27 anni trascorsi in prigione. In prossimità dei mondiali di rugby che avranno luogo proprio nel suo paese, il presidente decide di puntare sul potere dello sport per unire la nazione divisa. Se in un primo momento la popolazione nera odiava la debole squadra nazionale che con la presenza di un unico nero in squadra rappresentava la predominanza dei bianchi, grazie ad alcune mosse la nazionale finisce per riunire l’intero paese e a vincere i Mondiali.

Dopo Gran Torino Eastwood ripropone una nuova figura messianica nella sua lunga carriera costellata di vendicatori ed ultimamente concentrata sul perdono. Mentre il vecchio Kowalski si immolava in nome di un mondo migliore, Mandela basa tutto il suo operato sulla potenza del perdono per costruire un futuro migliore. E questo Mandela sembra davvero un’incarnazione messianica: con il suo utopismo, l’indole docile, la disponibilità a porgere l’altra guancia, il protagonista appare eccessivamente idealizzato, anzi, è proprio il caso di dirlo, santificato. Nemmeno un film biografico su un santo oserebbe dipingere una figura così uniforme. Nessuna sfaccettatura, mai una zona d’ombra nel volto e nei gesti di Mandela, sempre illuminati da una luce calda e dorata che scende dall’alto.
Della sua difficile vita familiare c’è solo un accenno con la breve apparizione del poco approfondito personaggio della figlia, che pare l’unica a non sostenerlo.
Dunque è sbagliato descriverlo come un film su Mandela. Questo è un film su Mandela alle prese con un particolare e apparentemente ( o effettivamente?) trascurabile evento. Perché è sicuro che il Sudafrica vinse, mentre è più difficile credere che ciò abbia spento un astio durato decenni. Perfino definirlo un film su uno dei tanti successi di Mandela mi appare eccessivo. Insomma il Nobel lo vinse per la pace non per lo sport. Che il rugby sia stato uno strumento per costruire la pace può essere vero, ma di qui a farne un film ci vuole coraggio. E Clint ne ha.
La conseguenza è però che nell’intento di soffermarsi esclusivamente su questo singolo episodio, il ritratto di statista che ne risulta è a dir poco lusinghiero, siccome l’impressione è quella che a Mandela interessasse più la squadra di rugby di qualsiasi altra questione, tanto da interrompere importanti meeting internazionali.
E che dire dello spazio dedicato alle attenzioni che il presidente riserva alle acconciature e ai vestiti delle sue collaboratrici, manco fosse uno degli amici di Scamarcio in Mine Vaganti?
“Per lui nessuno è invisibile” è la giustificazione.
Questo ritratto talmente monocorde e monumentale da risultare parodico e ampolloso è riscattato da una sublime interpretazione di Morgan Freeman, che riesce a dare vita e verità a un personaggio che pare una statua uscita da un museo.
Non molto condivisibile la nomination all’Oscar di Matt Damon, che per l’occasione si è costruito un fisico da rugbista ma in quanto a recitazione esegue ciò che la sceneggiatura gli chiede, ovvero pochissimo. Quel poco spazio che gli viene concesso è comunque troppo se rapportato alla parte dell’unico giocatore nero, Chester. Eastwood però non si sofferma troppo sull’effettiva importanza di questo giocatore, tralasciando del tutto le conseguenze che il suo infortunio avrebbe potuto avere sull’opinione pubblica.


Personalmente posso aggiungere che il connubio politica e sport mi è alquanto insopportabile, trattasi di due mondi che a livello nazionale per me sono solo simbolo di corruzione e troppi ed immeritati soldi. Non ho nemmeno mai condiviso l’importanza che gli Stati danno ai propri sport nazionali.

Con tutte queste premesse negative, Invictus è lo stesso un gran film e mi è piaciuto davvero tanto.

Ciò è possibile perché nonostante molti errori, Clint Eastwood prosegue il suo cammino intrapreso con Gran Torino con un film opposto. Il primo era un film a basso costo, divertente, cinico, crudele e saggio, la cui forza risiedeva nelle battute. Questa è una produzione più consistente, grandi star, tante comparse, messaggio edificante, politically correct ed ottimismo contagioso. Ma il vecchio Clint non si è rammollito. In entrambi esce vincente. Invictus è infatti un monumento allo sport, a un grande politico, a un grande attore, a un grande regista e anche al cinema. Un cinema classico, maestoso, esagerato, carico di abbozzi e pathos, banalità e messaggi edificanti. Patinato come quella luce dorata che lo illumina sempre. Ruffiano eppure sincero e alla fine onesto. Retorico, forzato, troppo lungo, ma dotato di grande pathos e grandi aspirazioni. Ingenuo, fin troppo lineare, ma imbattibile, anzi invincibile.
Imperdibile per spettatori di ogni età, razza e credo politico.

E con mia grande sorpresa il film mi ha emozionato come nessun altro era riuscito a fare in questo 2010.

VOTO: 8

CURIOSITA’
è un film che Eastwood ha costruito tra amici e familiari: è stato lo stesso Freeman (che ha vinto un oscar proprio grazie a Million Dollar Baby) che gli ha proposto e ha insistito per adattare questa storia tratta da un libro. Poi lo ha anche prodotto.
La musica invece è di Kyle Eastwood, figlio del regista.
E nei panni del giocatore che ha segnato l’ultimo e decisivo punto si fa notare Scott Eastwood, classe ’86, ex modello di A e già apparso in Gran Torino.





Morga Freeman e Clint Eastwood sul set

Scott Eastowood

Kyle Eastwood

venerdì 10 aprile 2009

RECENSIONE di GRAN TORINO di Clint Eastwood

Il vecchio Clint non molla: si ripropone in chiave di scorbutico dal cuore d’oro allibito di fronte all’odio che domina il mondo. Come l’ultimo film che lo vedeva anche attore, Million Dollar Baby, il suo personaggio all’apparenza intollerante (prima nei confronti delle donne pugili, ora razzista) si scopre protettivo e disposto a lottare per aiutare chi è oppresso, o semplicemente chi se lo merita. Non meritano infatti la sua fiducia i nipoti viziati e irrispettosi: ha più cose in comune con i vicini asiatici, rispettosi della famiglia e desiderosi di inserirsi.
Questo film circolare che si apre e conclude con un funerale, ha al suo interno una storia di incredibile umanità, in cui si mischiano temi come il razzismo, la paternità, l’amicizia, il senso di colpa, la guerra: potrebbe parere troppo ma non lo è. Eastwood miscela tutto con grande classe, meno classico del solito, ma comunque imponente, regalandoci una piacevolissima autoironia autocelebrativa. Infatti il film è un tributo che Eastwood regala a se stesso e al cinema, concludendo la carriera d’attore nel modo più ovvio, cioè in una bara. Questo è Eastwood il regista, l’attore e anche il personaggio: essenziale, senza mezzi termini. La società fa schifo? Lo dice schiettamente in tutto il film, con un pessimismo e un cinismo crudele, salvo poi inventarsi un epilogo sacrificale che diventa utopico nel suo significato salvifico e purificatore. Così l'uomo dal volto di pietra che Eastwood ha sempre incarnato giace a terra, morto con le braccia spalancate, come un Cristo immolato per le ingiustizie del mondo. Non a caso siamo a Pasqua.

VOTO: 8,5