François Ozon non
sbaglia un colpo e ogni volta si reinventa dimostrandosi capace di
padroneggiare il genere scelto. Commedia, musical, thriller, dramma: ci ha dato
ottimi esempi in tutti questi generi.
Questa volta mira
al dramma storico, guardando al melodramma del cinema che fu, e il risultato è
ancora una volta sorprendente, confermandolo il regista più interessante del
cinema francese.
Frantz è un film
che trabocca di eleganza, non solo formale. A una suggestiva fotografia che
mescola il bianco e nero ai colori (riservati alle scene emotivamente più
intense) si aggiungono degli attori che si muovono con eleganza all’interno di
inquadrature ben studiate seguendo un copione dal fascino dei tempi andati. Non
a caso l’ispirazione è un melo di Ernst Lubitsch del 1932 di cui preferisco non
svelarvi il titolo poiché troppo rivelatorio.
In Frantz il
personaggio del titolo è l’ossessione dei protagonisti, ma appare solo in
colorati flashback, poiché morto. La sua fidanzata vive con quelli che
sarebbero diventati i suoi suoceri se la prima guerra mondiale non avesse
ucciso l’adorato figlio unico Frantz. Recandosi quotidianamente alla tomba
dell’amato, la ragazza vede uno straniero misterioso, venuto anche lui a
deporre dei fiori…
Questo personaggio
sconvolgerà le loro esistenze, ma non stiamo parlando di Teorema di Pasolini:
qui è tutto più ambiguo, drammatico, elegante. C’è un’importante, seria
riflessione sulla guerra e le colpe di una generazione. C’è un mistero che
tiene desta l’attenzione dello spettatore e quando questo viene rivelato il
film in qualche modo prende una piega inattesa, anche se non siamo dalle parti
dei twist di Swimming pool o Nella casa. Tutto è più lineare, senza colpi di
scena eccessivi, eppure è difficile rimanere delusi o indifferenti perfino
davanti al finale aperto: la straordinaria prova d’attrice di Paula Beer,
giustamente premiata con la Coppa Volpi all’ultima mostra di Venezia e
l’intenso bianco e nero rimangono impressi, così come l’ottimismo che una
tragica storia senza speranza riesce a trasmettere.
Due diciassettenni
agli antipodi: uno è bravo a scuola, benestante e circondato dall’affetto dei
genitori. L’altro a scuola va male e vive con i genitori adottivi in una
fattoria isolata in cui lui stesso deve lavorare. Gli opposti si attraggono: e
questi due ragazzi cominceranno a comunicare a suon di botte, finché non
intervengono gli adulti.
André Techiné,
superati i settanta, torna a un tema a lui caro, l’adolescenza e torna a far
centro nel cuore del pubblico, della critica e dei distributori italiani, che
lo riportano in sala a 9 anni da I testimoni grazie ai consensi ottenuti
all’ultimo festival di Berlino.
Quando hai 17 anni
prende il titolo da un verso di Rimbaud mai citato nel film benché il film
inizi propri con alcuni versi del poeta e mette in scena una delicata storia di
formazione.
Attento ai
particolari e alla verosimiglianza, il regista costruisce un film fatto di
piccoli gesti quotidiani, in cui anche la natura circostante gioca un ruolo
importante. Diviso in tre atti, il film è in realtà diviso in due parti da un
colpa di scena che cambia le carte in gioco e modifica la storia. Appesantito
da una nascita e una morte che peccano di retorico simbolismo ma si inseriscono
nei canoni del romanzo di formazione, il film mischia tematiche fondamentali
come l’educazione, il bullismo e l’orientamento sessuale e diventa il
perfetto corrispettivo dell’italiano Un
bacio, altro film da recuperare e mostrare nelle scuole. VOTO: 7,5
Una liceale francese, unica udente di
una famiglia di non udenti, scopre di aver il dono del canto e le si apre davanti
un bivio: tentare un futuro da cantante o continuare ad aiutare i genitori
agricoltori?
I francesi ce l’hanno fatto ancora:
dopo Quasi amici sono riusciti a esportare un’altra commedia in cui disabilità
e humour si incontrano.
con Romain Duris, Audrey Tatou, Omar Sy, Gad Elmaleh
Se ti piace guarda anche: Se mi lasci ti cancello, Zazie nel metro, Il Truffacuori
TRAMA
Colin è un ricco ragazzo pieno di vita che vive col domestico filosofo Nicolas e un topo. Una sera conosce Chloé, la sposa poco dopo, ma la loro love story appena bocciata è subito minacciata dalla malattia che colpisce la giovane sposa.....
RECENSIONE Trasposizione del romanzo del 1947 di Boris Vian che Michel Gondry ha descritto come fondamentale per la sua formazione, il film meraviglia fin da subito per il tripudio di colori ed effetti speciali che creano un mondo irreale, magico e fantasiaso come non se ne vedevano da tempo. Peccato che questo involucro così appariscente finisca per soffocare i sentimenti dei due pur bravissimi protagonisti: una ritrovata Audrey Tatou, sempre a suo agio in film ad alto tasso poetico e Romain Duris, garanzia del cinema d'oltralpe che regala ogni volta grande interpretazioni. Al di là della storia in sé, inverosimile e irreale, il romanzo di Vian si concentrava sulla forza dell'amore, capace di essere inebriante all'inizio e straziante quando finisce o fa soffrire. Per rappresentare questa storia il film inizia coloratissimo e finisce in bianco e nero, stupisce lo sguardo dello spettatore con trovate visive avvincenti ma non è del tutto capace di restituire la forza drammatica necessaria a lasciarsi travolgere anche col cuore. VOTO: 6,5
TRAMA Vanda si presenta a un'audizione e sembra essere il contrario di ciò che l'autore Tomas sta cercando per la propria protagonista: volgare, casinista, stupida. L'uomo decide comunque di darle una possibilità e farle fare un provino: quando la donna inizia a recitare è l'inizio di un'esperienza sconvolgente..
RECENSIONE
Quanta vitalità ci può essere in un dimenticato romanzo dell'Ottocento, in un film girato con due attori in un unico set e soprattutto quanta vitalità c'è nell'ottantenne Roman Polanski, che dopo Oscar e colossal torna alle origini girando un piccolo film low budget, privo di tutto tranne che di tre cose essenziali al cinema: lo sguardo, le interpretazioni e la vita.
Questo suo ultimo film, anch'esso un adattamento di un'opera teatrale (di David Ives), è un divertissement intellettuale raffinatissimo, più divertente e pungente di Carnage, benché di tematiche prettamente artistiche.
Si parla del rapporto tra registi e attori, tra registi e opera, tra opera e pubblico.
Si parla anche di ruoli, quelli dell'autore e dell'attore: fino a che punto l'attore può intervenire nel processo creativo, quale tra le due figure è quella dominante?
Il film esplicita la suddivisione dei ruoli rifacendosi al sadomasochismo, termine che, come imparerete grazie a questo film, proviene proprio dal nome dell'autore di Venere in pelliccia, Leopold Von Sacher-Mazoch.
E il rapporto tra regista e attrice diventa letteralmente sadomasochistico.
L'esplosiva finta svampita aspirante attricetta mette in crisi l'autore demiurgo, prima dimostrandosi un'attrice straordinaria, poi scavando nell'opera e nella psiche del regista per dimostrargli e rivelargli quello che nemmeno lui osa ammettere.
Venere in pelliccia è quindi una magnifica riflessione sulla creazione artistica e la sua messa in scena, ricca di riferimenti gustosi (la protagonista chiede se la pièce è ispirata alla canzone di canzone di Lou Reed e i Velvet Underground Venus in furs, le scenografie sono quelle di un musical ispirato a Ombre rosse e la suoneria che interrompe a più riprese l'audizione è quella la Cavalcata delle valchirie che ci riporta ad Apocalyspe Now) con un finale grottesco che rimanda all'iniziale accenno a Le Baccanti di Euripide.
Bravo dunque Polanski, che con pochi mezzi realizza un film semplicissimo e allo stesso tempo articolatissimo grazie ai dialoghi scoppiettanti di due attori straordinari, senza dimenticarsi delle ottime luci di Pawel Edelmen.
Nonostante la location unica e due attori che non fanno altro che parlare, il film riesce nell'impresa di non risultare verboso o statico, ma al contrario, ci trasporta e trascina sul palco per farci partecipare assieme ai due attori a quest'audizione che si trasforma in un gioco al massacro in cui si mettono alla berlina molti concetti.
Anche Carnage era un gioco al massacro in cui si crocifiggeva la borghesia, qui il bersaglio è invece la cultura fallocentrica e dopo aver visto il film capirete che il termine è più che mai appropriato.
E ancora una volta il cinema di Polanski fa tornare in mente Buñuel, non più quello "solo" antiborghese, ma quello di Bella di giorno, in cui l'annoiata e repressa borghese Sévérine si prostituisce senza riuscire però a trasformare in realtà i suoi sogni sadomasochistici.
Nel romanzo ottocentesco di Von Sacher Mazoch messo in scena dai due protagonisti il protagonista si chiama Severin e così, dopo Giovane e bella, è la seconda volta, nell'arco di una settimana, che il celebre film di Buñuel mi ritorna in mente, tra l'altro dopo averlo nominato in occasione dei 70 anni di Catherine Deneuve, che guardacaso fu protagonista del primo successo internazionale di Polanski, Repulsion. Insomma tutto torna.
Per concludere, applausi ai due protagonisti, Mathieu Amalric, alter ego del regista, di cui ricorda le sembianze fisiche, e Emmanuelle Seigner, moglie e musa del regista che gli si concede completamente con un'interpretazione memorabile.
Isabelle non lo fa per noia, né per professione e nemmeno per passione. Isabelle è una studentessa diciassettenne che nel tempo libero, di tanto in tanto, si prostituisce. Lo fa perché le piace "abbordare" i clienti su Internet dice lei, lo fa anche perché il sesso per lei è una delusione dopo una prima volta vissuta con distacco, deduciamo noi.
La storia di Isabelle si inserisce e si allontana dalle storie di baby squillo che in questi giorni riempono i giornali: lei non è costretta da nessuno e non lo fa per comprarsi vestiti, droga o ingressi in discoteca. Nasconde tutti i soldi nel suo armadio, senza spenderli mai.
Il film omette volontariamente molti particolari e a François Ozon piace sempre illustrare situazioni estreme e anche per questo i suoi film affascinano.
Dopo l'ottimo Nella casa, uscito solo pochi mesi fa, il regista francese dirige un altro film molto interessante, questa volta optando per una sceneggiatura originale di suo pugno e riesce ad andare oltre l'aspetto pruriginoso per costruire una storia in grado di raccontare uno spaccato di vita adolescenziale e familiare.
Gran parte del merito va anche agli attori, tutti in parte, anche se a spiccare è la bellissima protagonista, l'ex modella Marine Vacht, è semplicemente perfetta e credibile sia come candida e innocente adolescente, sia come provocante ammaliatrice di uomini.
Ozon divide il suo film in quattro parti che corrispondono a quattro stagioni rappresentte ognuna da una canzone di Françoise Hardy, cantante particolarmente amata dal regista e dal cinema d'essai recente: L'amour d'un garçon, A quoi ça sert,Première rencontre e Je suis moi.
Da segnalare inoltre il curioso, intrigante e spiazzante finale con Charlotte Rampling, protagonista di tanti film del regista.
A dieci anni dal debutto, François Ozon si conferma dunque come uno dei migliori registi francesi in circolazione e in patria i suoi film, che in Italia vengono relegati in piccoli cinema d'essai, godono sempre di maggior successo di pubblico tanto da conquistare puntualmente i box office.
con Adèle Exarchopoulos, Léa Seydoux, Salim Kechiouche, Jérémie Laheurte
Se
ti piace guarda anche: L’esquive-La schivata, La belle personne, Amour, Entre
les murs-La classe, Emmanuelle
TRAMA
Adele
è una giovane liceale golosa di cibo e di sesso, che scoprirà quanto possa
essere insapore una vita senza amore.
RECENSIONE
Chi
conosce il cinema di Kechiche in Vita di Adele troverà una summa del suo cinema
in quanto vi ritroviamo una componente letteraria e scolastica (La schivata), una
alimentare (Cous cous) e una fisica (Venere nera).
Tutte
queste componenti sembrano, equamente distribuite, scandiscono questa storia di
formazione che segue da (molto) vicino la crescita di Adele, da liceale a
insegnante.
Innanzitutto
vi sono le numerose scene scolastiche che ci spiegano la bellezza e l’attualità
di Marivaux (già al centro del suo secondo film) e di Sartre.
Poi
vi sono le scene in compagnia, in cui l’imperativo è mangiare, e infine quelle
d’intimità, in cui si esplorano i piaceri del corpo.
La
macchina da presa pedina la propria protagonista senza tregua, senza pudore,
per trasmetterne l’autenticità. Il cinema dell’autore tunisino è un cinema che stimola
lo spettatore su tutti i fronti: mirando al realismo assoluto nello stile, l’occhio
di chi guarda è quello di un testimone intimo, voyeur, mentre per il contenuto procede a blocchi
narrativi simbolici, che costringono l’osservatore a colmare gli spazi.
Adele
scopre presto che le piacciono i piaceri: che siano del palato o della carne,
poco importa, la ragazza ha capito come godersi la vita senza che ciò faccia di
lei una libertina, una lolita, o una Emmanuelle.
La
vie d’Adèle sdogana l’istinto e la passione sessuale così come l’anno scorso
Amour sdoganava la morte. Entrambi i film mostrano senza compromessi la cruda
realtà e trasformano gli spettatori in partecipi voyeur. Entrambi i film hanno vinto la Palma d'oro a Cannes con una menzione speciale per le interpretazioni.
Entrambi hanno destato grandissimo scandalo ed entusiasmo, eppure parlano di due temi
reali e naturali come il sesso e la morte, che a ben pensarci raramente sono
affrontati con onestà. Eros e Thanatos sono infatti ancora dei tabù che a
quanto pare solo il cinema francese è in grado di far cadere per mostrare la
vita per quello che è.
Un artigiano proveniente dalla campagna incontra all'Opéra di Parigi un'insegnante di danza di fronte alla quale prova l'irresistibile impulso di baciarla, prima ancora di essersi presentato.
Da quel momento i due non riusciranno più a staccarsi, legati da una forza invisibile che li obbliga a compiere gli stessi movimenti.
RECENSIONE
Dopo l'acclamato dramma La guerra è dichiarata Valerie Donzelli ritorna alle atmosfere del suo film d'esordio, lo spensierato e surreale La reine des pommes, ma senza raggiungerne l'equilbrio tra componente comica e drammatica.
Se infatti l'inizio è nel segno della commedia, esaurita la trovata comica al centro del film si passa a una parte improvvisamente drammatica (ma per nulla commovente), che si trascina verso un prevedibile finale con una serie di passaggi inutili.
Questa mancanza di originalità a livello di sceneggiatura stupisce coloro che erano rimasti piacevolmente colpiti dalle ottime sceneggiature dei due film precedenti dell'ormai affermata regista-sceneggiatrice e attrice.
In ogni caso la pellicola, pur con le sue cadute, si rivela piacevole, divertente e romantica nel suo dipingere un amore folle che più folle e inspiegabile non si può.
Come in ogni film dell'autrice, la colonna sonora è irresistibile.
con Catherine Frot, Jean d'Ormesson, Hippolyte Girardot, Arthur Dupont
Se ti piace guarda anche: Julie & Julia, Chocolat, Sapori e dissapori
TRAMA
Francia, fine anni '80. Hortense, una cuoca che vive in uno sperduto villaggio del Perigord, famoso per foie gras e tartufi, viene scelta per diventare cuoca privata del Presidente. Turbata dall'evento, che a quanto pare non può discutere, si fa ben presto odiare dallo staff interamente al maschile della cucina centrale del'Eliseo ma si fa apprezzare dal Presidente in persona col quale avrà il piacere di parlare più volte.
RECENSIONE
Pubblicizzata come commedia culinaria che ha stregato il pubblico francese, questo film il cui titolo letterale sarebbe "I sapori del palazzo" è tutt'altro che saporoso.
Difficile definirlo una commedia visto che non si sorride nemmeno, ma non è neppure un dramma.
Anche dal lato gastronomico il film attrae poco: le ricette sono troppo elaborate, costose e particolari per far venire l'acquolina in bocca: farciture a base di sangue di pollo, interiora di vitello e soprattutto tanto, ma tanto tartufo e foie gras.
Non è esattamente la cucina di Benedetta Parodi, alla portata di tutti, e presto all'Eliseo se ne rendono conto a invitano la cuoca a tagliare i fondi: questo e lo stress accumulato la portano a lasciare il prestigioso incarico e a fuggire in un'isola antartica come cuoca di una mensa.
Le scene antartiche sono così continuamente alternate con quelle parigine, per mostrare i contrasti tra i due incarichi, peccato però che il film si limiti solo ad accennare gli intrighi e la stressante e incomprensibile etichetta ch egoverna l'Eliseo e quindi la scelta della cuoca Hortense viene sbrigata frettolosamente e il suo personaggio resta abbastanza impenetrabile. Peccato anche per Catherine Frot (La voltapagine, Lezioni di felicità) , bravissima attrice francese qui imprigionata in un ruolo paradossalmente insipido.
L'interesse si concentra tutto nel conoscere e indignarsi per l'esorbitante e inutile numero di personale che lavora per l'Eliseo, con gerarchie e etichette da rispettare scrupolosamente. Passati i primi venti minuti, il film quindi perde d'interesse Toute a poco serve la consueta finesse del cinema francese.
con Fabrice Luchini, Ernst Umhauer, Kristin Scott Thomas, Emmanuelle Seigner, Bastien Ughetto, Yolande Moreau
Se ti piace guarda anche: Match Point, Swimming Pool, Basta che funzioni, La damigella d'onore.
TRAMA
Un professore, correggendo i tanti pessimi compiti dei propri studenti rimane talmente colpito dal tema di un ragazzo da invitarlo a proseguire nei suoi racconti che diventano sempre più morbosi man mano che il giovane si avvicina alla famiglia di un suo compagno di classe. La loro sfida, inizialmente squisitamente intellettuale, prenderà pieghe sempre più pericolose per le persone coinvolte, artefici compresi.
RECENSIONE
A due anni da Potiche - La bella statuina, François Ozon, uno dei più prolifici registi francesi del nuovo cinema francese (ha già terminato le riprese del suo film successivo), ritorna adattando una pièce di Juan Mayorga, Il ragazzo dell'ultima fila, e come era già successo con 8 donne e un mistero, il regista si dimostra particolarmente predisposto agli adattamenti teatrali.
Nella casa, titolo all'apparenza banale ma perfetto, è un film coinvolgente che muta col passare dei minuti, sorprendendo sempre lo spettatore.
La storia di per sé non è nuova, il cinema in fondo è pieno di racconti di ossessioni, e si può evincere abbastanza presto dove si vuole andare a parare, eppure il regista se sempre come rendere la narrazione interessante e piacevole, aiutato anche da un ottimo ritmo che trasforma la commedia in un solido thriller.
C'è molto Woody Allen in questo squisito disquisire e criticare l'arte (con risultati spesso divertenti) e anche nella trama che ricorda i thriller londinesi del regista. Ma c'è anche molto cinema francese, da Chabrol a Rohmer, ma soprattutto appare evidente il legame con un altro film di Ozon, del quale è speculare per certi versi: Swimming Pool, in cui la scrittrice Charlotte Rampling si lasciava completamente manipolare dalla seducente Ludivine Sagnier. Qui c'è un professore che si lascia manipolare da uno studente attraverso dei racconti. Realtà e finzione, scrittori che per scrivere una storia non si fanno alcun scrupolo, curiosità che sfociano in ossessioni dai risvolti tragici.. Tanti sono i temi, tutti noti, ma abilmente presentati e mescolati.
La riuscita del film è dovuta anche a un cast azzecato e di grande talento: sempre ottimi Fabrice Luchini e Kristin Scott Thomas, coppia di intellettuali che oramai non ha altro da fare se non farsi i fatti altrui, bella e brava la signora Polanski Emmanuelle Sagnier nei panni della casalinga frustrata che si lascia sedurre dal ragazzino, perfetti infine i giovanissimi e sconosciuti Ernst Umhauer, protagonista capace di essere credibile nonostante il rischiosissimo e ambiguo ruolo e Bastien Ughetto, cavia del romanzo a puntate.
con Jean-Paul Belmondo, Jean Seberg, Daniel Boulnager, Jean Pierre Melville
Se ti piace guarda anche: Ascensore per il patibolo, Jules et Jim, Nel corso del tempo, Somewhere.
TRAMA Un fuggitivo, Michel, reduce da un furto e un omicidio, si rifugia nella love story con una studentessa inglese che vende l'Herald Tribune. Tra menzogne e passione, la storia non potrà che avere esiti tragici.
RECENSIONE
Cosa si può aggiungere a un film che ha cambiato per sempre la storia del cinema?
A Fino all'ultimo respiro si devono moltissimi elementi diventati poi comuni nel cinema di oggi che però erano impensabili fino allora: i cosiddetti "tempi morti", personaggi che si rivolgono direttamente alla telecamera, uso della camera a spalla, montaggio disconnesso, citazioni di altri film, negazione di una trama e dell'importante dei dialoghi....
Senza Fino all'ultimo respiro non avremmo mai avuto Tarantino, tanto per far un esempio specifico. In generale, non avremmo mai avuto quel cinema che oggi consideriamo d'autore: Godard sfidò il cinema dell'epoca proponendo un'alternativa e da quel momento il cinema si sarebbe sempre più diviso tra cinema "d'autore" e non, tra registi che vogliono curare ogni aspetto possibile dei loro film e registi che lavorano per commissione. Naturalmente questa è una semplificazione, ma il film fu il primo ad esprimere quel concetto di "politica degli autori" (da qui il nome cinema d'autore) apparso qualche anno prima sulle pagine dei Cahiers du Cinéma.
Da una parte un ritorno al passato quando i dialoghi non erano così necessari: emblematica e citatissima in seguito, la chiusura a iride tipica dei film muti, dall'altro un grande passo verso un cinema del futuro che trova nuove vie per comunicare.
Non servono più storie, né personaggi, né dialoghi.
Basta seguire lo zigzagare di un criminale ed ascoltare i suoi dialoghi non troppo sensati.
Pur non essendo il primo film della Nouvella Vague, Fino all'ultimo respiro ne è sicuramente il manifesto.
Quale sia esattamente il primo film di questa corrente cinematografica è difficile dirlo, siccome i critici non l'hanno ancora deciso: che sia Ascensore per il patibolo di Louis Malle, I quattrocento colpi di François Truffaut o Hiroshima mon amour di Alain Resnais, il più celebre, storico e simbolico resta questo film d'esordio di Godard, scritto con l'altro regista simbolo della Nouvelle Vague, destinato poi a una carriera di maggior successo e respiro, ovvero François Truffaut. A dire il vero il film si basa su un soggetto, e la sceneggiatura fu decisa ciak dopo ciak.
Il film deve molto poi al protagonista, negativo, che non fa nulla per farsi amare dallo spettatore eppure alla fine affascina. Al suo fianco un'algida, androgina eppure sexy Jean Seberg, pronta a impersonare un nuovo tipo di femminilità.
CASTJEAN SEBERG
(1938-1979)
Nell'immaginario collettivo Jean Seberg è rimasta la ragazza coi capelli cortissimi che fa innamorare Bebel in questo film iconico. Una ragazza emancipata e forte, in parte lontana dalla donna che l'attrice diventò. Jean soffrì spesso di depressione e si tolse la vita a 39 anni con il solito sovraddosaggio fatale di barbiturici. La sua scomparsa provocò molto scalpore perché si vociferò che fosse coinvolta la CIA.
JEAN-PAUL BELMONDO
Il suo primo ruolo importante, ma anche quello più importante. Per la sua biofilmografia cliccare qui.
REGISTAJEAN-LUC GODARD
Nato nel 1930, simbolo della Nouvella Vague di cui dirige alcuni film simbolo come La donna è donna, Band à part, Due o tre cose che so su di lei.
Romain è un fotografo trentunne a cui viene diagnosticato
un tumore maligno: gli restano solo 3 mesi di vita.
Nei restanti mesi che gli rimangono allontana da
sé tutte le persone che ama, dal compagno alla sorella, non volendo rivelare a
loro il suo male. Solo con la nonna riesce a confidarsi. Ed è proprio andando
da lei che incontra una cameriera che gli propone di ingravidarla..
RECENSIONE
Secondo film di Ozon della trilogia del lutto, iniziata
con Sotto la sabbia e terminata con Il rifugio, Il tempo che resta è un
piccolo, brevissimo film, che tratta un dramma così grande con mano
leggerissima, sfuggendo a scene madri o lacrime facile. Lo spettro della morte
s’insinua violentemente nel protagonista, eppure la vita continua, naturalmente
fino alla morte.
Come spesso ama fare, Ozon mette al centro del
suo film un personaggio ambiguo (nei suoi film non ci sono mai i buoni e i
cattivi) che compie sceltre controverse, destinate a far discutere. In questo
caso, il protagonista rende erede universale il figlio che non vedrà mai,
concepito quasi per caso con una sconosciuta e diseredando così i suoi
familiari.
REGISTA
François Ozon è nato nel 1967 a Parigi e ha esordito come regista nel 1998 con Sitcom. Ha alternato film con grandi star a piccole produzioni indipendenti. Tra i suoi maggiori successi: 8 donne e un mistero (2001) e Potiche, la bella statuina (2010).
ATTORI
MELVIL POUPAUD
Nato nel 1973 a Parigi, è un musicista e attore
che recita dall’età di 10 anni. Tra i suoi film ricordiamo: Un ragazzo, tre
ragazze (1995), Pranzo di Natale (2005), Speed Racer (2008) e Il rifugio (2009).
VALERIA BRUNI TEDESCHI
Nata a Torino nel 1964, sorella di Carla Bruni,
ha alternato l’attività di attirce tra Francia e Italia, vincendo in entrambi i
paesi importanti riconoscimenti: due David di Donatello, uno per La seconda
volta (1996) e uno per La parola amore esiste (1998) e un César per Le persone normali non hanno niente
di eccezionale.
È stata diretta anche da
Bellocchio, Bertolucci, Chabrol, Ridley Scott e Spielberg.
JEANNE MOREAU
(Per la sua biofilmografia clicca
qui). E’ una delle ultime apparizioni di Jeanne Moreau in un film che ha
ottenuto una certa visibilità. Negli ultimi anni infatti la grande attrice
francese è apparsa per lo più in film da festival (si ricorda la collaborazione
con Amos Gitai)difficilmente reperibili
o in serie tv biografiche in costume prettamente commerciali.
Se ti piace guarda anche: Lola, La dama e l'avventuriero, La stangata
TRAMA Jean Fournier è un
impiegato di banca, il classico bravo ragazzo che si lascia convincere da un
collega più grande e mondano ad accompagnarlo al casino, esperienza che finirà
per sconvolgergli la vita, trasformandolo in un giocatore accanito e
trascinandolo in una storia d’amore con una donna ambigua.
RECENSIONE
La trama
sembrerebbe annunciare l’inevitabile dramma, ma non è così: Jean non finirà sul
lastrico e la donna non gli provocherà (troppi) guai, ma al contrario, lui con
la sua integrità riuscirà, pare, a riportare sulla retta via questa donna che
usa il proprio fascino per farsi mantenere da giocatori sensibilI al suo
charme.
Più che una
grande peccatrice il personaggio di Jeanne Moreau è quello di grande
seduttrice, e il termine “peccato” comporta un giudizio che Jacques Demy
sicuramente non voleva dare a un film comunque connotato di significati
religiosi.
Meglio dunque
l’originale, la Baia degli angeli, che si riferisce al luogo geografico (Nizza) e al fatto che i due personaggi sono in fondo
due angeli: Jean è l’angelo che salva l’angelo caduto, un Orfeo che tenta di
salvare dall’Inferno la sua Euridice. Lo stesso Demy dichiarò che all’origine
della sceneggiatura, scritta in tre giorni (!) c’erano proprio i concetti di
Paradiso e Inferno, insieme ad altre simbologie bibliche.
Il Morandini lo
definisce “dostoevskiano nel tema, bressoniano nello stile di fertile
secchezza”, due grandi complimenti per un film di indiscusso e intatto fascino, fondamentalmente e ingiustamente, ricordato solo come il
film “con Jeanne Moreau” bionda. Splendide le musiche di Michel Legrand.
Del Jacques Demy
“amaro”, decisamente più incisivo e memorabile risulta Lola, anche se è
innegabile che il personaggio di Jackie interpretato da Jeanne Moreau risulti
comunque affascinante.
Curiosità: come assistente regista c'è Costa Gavras.
Dopo il saltino potete vedere tutto il film in versione originale, ahimé senza sottotitoli!
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Mi hai detto “ti amo”
Ti dissi “aspetta”
Stavo per dirti “eccomi”
Mi hai detto “vattene”
Con queste frasi diventate poi celebri inizia il triangolo
amoroso più famoso della storia del cinema: due amici per la pelle si
innamorano della stessa donna, Catherine, che non disdegna il triangolo, anche
una volta sposata. Ma per quanto potrà continuare?
TRAMA
Jules et Jim nella memoria collettiva è legato a Parigi,
alla Jeanne Moreau vestita da uomo che corre insieme ai due spasimanti, ma il
dramma della storia inizia in uno chalet di montagna in Germania meridionale. È
qui che Jim va a visitare Catherine e Jules, sposati e con una figlia ed è qui
che inizierà una relazione tra i due, sotto gli occhi gelosi ma impotenti di
Jules.
Catherine presto però è insoddisfatta anche dal rapporto con
Jules poiché i due non riescono ad avere un figlio e inizia a civettare con
Albert.
Quando Catherine, Jules et Jim si ritroveranno a Parigi,
l’epilogo sarà tragico: infelice, ucciderà se stessa e Jim sotto gli occhi di
Jules, ancora una volta testimone dolente e impotente.
DIETRO LE QUINTE
Franz Hessel fu uno scrittore tedesco che durante il suo soggiorno
parigino divenne miglior amico di Henri-Pierre Roché e sposò la giornalista di
moda Helen Grunt, con la quale tornò a Berlino ed ebbe un figlio, Stephan, oggi
diplomatico.
Franz parlò della rapporto che si creò fra i tre in Pariser
Romanze (Romanza Parigina), pubblicato nel 1920, anno in cui si intensificò la
relazione tra Helen e Henri-Pierre, tanto che Helen divorziò da Franz l’anno
seguente. I due si lasciano nel ’34, mentre Hessel morì nel ’41. Il figlio di
Franz, Stephan, classe 1916, è un attivista, saggista e diplomatica
naturalizzato francese che oggi ha 94 anni e da poco ha pubblicato
Indignez-vous, diventato il manifesto degli indignados, poi docu-fiction
Indignados diretto da Tony Gatlif, presentato all’ultima Berlinale.
Henri Roché parlò del triangolo amoroso che aveva vissuto in
Jules et Jim, pubblicato nel ’51 e passato del tutto inosservato.
Truffaut, dieci anni più tardi, comprò il libro da un
bouquiniste in riva alla Senna e ne rimase folgorato.
Contattò subito Roché, 84enne, e gli propose di collaborare
all’adattamento.
Gli mostrò in foto Jeanne Moreau e lo scrittore fu
soddisfatto dalla scelta, ma non conobbe mai questa Catherine perché morì dopo
poche settimane.
La lavorazione del film fece parlare molto di sé, tant’è che
Jean Luc Godard, amico di Truffaut, in Une femme est une femme, inserì un
cammeo della Moreau che saluta Jules e Jim.
L’uscita del film fece assai scandalo all’epoca, come ormai
ogni film con la Moreau protagonista.
La canzone che l’attrice canta nel film, Le Tourbillon, fu
un hit composto da Cyrus Brassiak qualche anno prima pensando proprio alla
stessa attrice, moglie di uno dei suoi più cari amici.
Le musiche di Georges Delerue sono state inserite dal Time nella Top
10 delle migliori colonne sonore di sempre, mentre l’Empire, nel 2010 l’ha
inserito alla posizione 46 dei migliori film della storia del cinema.
Dopo i due ambigui ruoli di Malle, quello di una donna che
fa uccidere il marito e quello di una donna che abbandona la famiglia per vivere
una storia d’amore, Jeanne Moreau interpreta un altro personaggio decisamente
controverso. La sua Catherine sottopone i due uomini che la amano a una
convivenza forzata, ingelosendo l’un l’altro quasi per gioco. Litiga con Jim
perché non le dà un figlio, ma la figlia avuta con Jules non le ha impedito di
lasciare il marito. Moderna, colta, seducente e forte, Catherine rappresenta un
nuovo tipo di donna, capace di manipolare gli uomini che diventano
letteralmente vittime dei suoi umori e sentimenti.
L’estremo gesto finale che sconvolse gli spettatori
dell’epoca è l’ultima angheria alla quale sottopone i suoi amanti.
RECENSIONE
Considerato tutt’oggi come uno dei più grandi classici della
storia del cinema, Jules e Jim può apparire datato, ma il suo fascino è rimasto
intatto. E il meraviglioso motivo cantato dalla Moreau, Le Tourbillon, rimane
indelebile nella memoria di chiunque abbia visto il film.
Servito da ottimi dialoghi e un vivace montaggio, nonché
trovate cinematografiche allora inusuali il film rimane una seducente descrizione di un
amore capriccioso, egoistico e distruttivo. Un amore che invece di portare alla
felicità porta, letteralmente, al baratro.